L’Istituto di previdenza dei giornalisti italiani tra qualche mese non esisterà più. Almeno come l’abbiamo conosciuto sinora. L’INPGI 1, la sezione principale dell’ente, che comprende tutti i giornalisti titolari di un rapporto subordinato, si trasferirà armi e bagagli nell’INPS, godendo dell’abbraccio caldo e sicuro di papà Stato. Sopravviverà l’INPGI 2, la sezione che raggruppa i giornalisti liberi professionisti, i freelance, i precari di estrazione varia. Diciamo pure che si tratta di una morte scontata, ampiamente annunciata.
Facciamo parlare i numeri. Dal 2011 l’ente previdenziale è stato sempre in perdita. Nel 2018 lo sbilancio tra contributi incassati e trattamenti erogati è stato di 147,6 milioni; nel 2019 171,4 milioni; nel 2020 addirittura 242 milioni. La liquidità nelle casse dell’istituto tra fine 2019 e fine 2020 è scesa da 369 a 217 milioni. Le cifre dicono una cosa precisa: se non si fosse intervenuto in qualche modo, già dal 2022 il pagamento delle pensioni sarebbe stato a forte rischio. Questi i dati nudi e crudi del dramma.
Come si è potuti arrivare fino a questo punto? La crisi irreversibile dell’editoria classica naturalmente spiega molte cose. Anche qui ci facciamo aiutare dai numeri. Tra il 2010 e il 2020 la pubblicità sui quotidiani è calata quasi di due terzi, praticamente è scomparsa. Nello stesso periodo l’emorragia di copie vendute è diventata inarrestabile. Solo nell’ultimo anno il calo si attesta sul meno 14%. Tra il 2016 e il 2020 i maggiori sette editori italiani sono passati da 48 a 30 milioni di copie vendute al mese. Nell’ultimo decennio gli stessi editori hanno perso oltre 2,5 miliardi di fatturato. In tutto ciò, in poco più di dieci anni il rapporto tra giornalisti attivi e pensionati è calato da 3 a 1,53.
Le ragioni sono tutte qua? L’INPGI è morta, dunque, a causa di uno tsunami che ha colpito il mondo dell’editoria, di fronte al quale non resta che rimpiangere il nostro piccolo mondo antico, sospirando magari “beh, è andata così”? Non è esattamente così. Occorre riflettere anche su altri elementi. A partire dal 1994, anno in cui avvenne la privatizzazione di questo e di altri enti, l’INPGI ha agito alla stessa stregua dell’INPS. Non si è limitato a garantire le pensioni degli iscritti ma ha impegnato ingenti risorse per cassa integrazione, disoccupazione, contratti di solidarietà e chi più ne ha più ne metta. Insomma, non solo previdenza ma anche assistenza. Ricorrere alla cassa dell’INPGI è diventata la soluzione più facile e a portata di mano per alleviare le varie crisi aziendali cui gli editori si sono trovati a fare fronte. Un bel piano di esuberi, cassa integrazione, contratti di solidarietà, prepensionamenti e via. Tanto c’era l’INPGI. In questo modo, negli ultimi dieci anni il malandato ente previdenziale ha dovuto tirare fuori per lo meno mezzo miliardo di euro. Senza che i sindacati alzassero particolari barricate.
Ma bisogna essere onesti. La responsabilità è anche della nostra categoria. Mi riferisco, in particolare, agli “anziani”, i garantiti, quelli che sono riusciti a strappare un contratto a tempo indeterminato in altre epoche, quelli delle vacche grasse, quando chi entrava da dipendente in una testata giornalistica sapeva di poter contare, a fine carriera, su una pensione di massimo livello. Questo perché, ricordiamolo, per molti anni il contratto giornalistico è stato in assoluto il più oneroso tra quelli collettivi nazionali. Ad un certo punto, di fronte ad una crisi ormai divenuta strutturale, la categoria avrebbe dovuto manifestare un maggiore senso di solidarietà, soprattutto nei confronti dei giovani e dei precari. Ridimensionare un pochino i trattamenti dei privilegiati per dare una mano ai nuovi arrivati. Solidarietà che non si è vista, anche pensando al fatto che se gli iscritti all’INPGI 2, i precari, già dagli anni ‘90 sono stati costretti al passaggio al contributivo puro, i garantiti, invece, hanno conservato il retributivo fino al 2017.
Per carità, qualche tentativo per salvare l’ente c’è anche stato. Rimorme e riformine che, però, non hanno cambiato la realtà di una virgola. Si è anche pensato di allargare la platea degli iscritti, mettendo dentro l’INPGI poligrafici e addetti agli uffici stampa. Peccato che le categorie interessate abbiano respinto le proposte al mittente. Così, i vertici dell’INPGI e i sindacati, che ancora di recente vedevano nell’assorbimento da parte dell’INPS un attentato all’autonomia della categoria, hanno dovuto arrendersi e commentare con favore l’esito della vicenda, chi convintamente chi obtorto collo.
Eppure, credo che un rischio per l’autonomia dei giornalisti effettivamente esista e che il passaggio all’INPS in generale non sia una buona notizia. Non tanto e non solo per il fatto che, a differenza di quelli delle aree tecnica, economico-giuridica e medica, essi diventano gli unici professionisti di un certo peso a non avere una propria cassa indipendente. Circostanza che, a questo punto, dovrebbe suscitare anche qualche riflessione sul ruolo dell’Ordine dei giornalisti. Quanto, soprattutto, per il fatto che diventa difficile fare il cane da guardia del potere, aspirazione massima per un giornalista di stampo occidentale, quando ci si affida allo stesso per avere garantito il trattamento previdenziale. Con quale credibilità domani un giornalista dipendente potrà ancora accusare una qualsiasi azienda, ad esempio, di “privatizzare i profitti e socializzare le perdite”? E ancora, chi non ricorda le formidabili inchieste sulle pensioni d’oro dei politici pagate con le tasse degli italiani, molte delle quali valsero ad alcuni colleghi vasta notorietà? C'è ragione di temere che in futuro di inchieste del genere ne leggeremo sempre di meno. Scommettiamo?