È di tutta evidenza come non sempre le leggi siano viste di buon occhio da chi ne sia poi il destinatario. Se circoscrivessimo questo malcontento agli ultimi decenni di storia non comprenderemmo la profondità del fenomeno che affonda le radici nell’alba dei tempi… della cristianità.
È risaputo che per lo stesso Mosè, rav e guida del popolo ebraico, non fu semplice far digerire alla propria gente il decalogo di prescrizioni che il Signore gli dettò sul Sinai. Si narra che, di ritorno dal monte, Mosè fosse particolarmente preoccupato dalla necessità, da un lato di ottemperare agli ordini del Signore di diffondere le leggi, e dall’altro di cercare di farle andare a genio del suo Popolo. Nel momento in cui, con orgoglio ed emozione, si trovò a sciorinare il decalogo, apprese con estremo stupore che nessun brusio o malcontento iniziò a circolare fra le fila del suo Popolo. Forse, però, canto vittoria troppo presto. “Nono comandamento: non desiderare la donna d’altri” – disse, ed ecco che si levarono mormorii, borbotti e malumori. Fu allora che, furbo, il buon Mosè, nell’estremo tentativo di evitare il linciaggio, disse con spiccata cadenza meneghina:” Fratelli cari, mi si consenta di dire che sicuramente queste sono le leggi, ma non dimentichiamoci che c’è anche la giurisprudenza”.
Lo scorso agosto, l’ottava Commissione del Senato – Lavori pubblici e comunicazioni – ha intrapreso l’esame del disegno di legge che delega il governo alla riscrittura del codice in materia di contratti pubblici. Sebbene l’ultima normativa unitaria in materia di appalti risalga ad appena sei anni prima, le difficoltà delle stazioni appaltanti e degli operatori economici nell’applicare ed interpretare il codice hanno condotto ad una overproduction di pronunce ed altrettanti, spesso contrastanti, orientamenti giurisprudenziali che hanno reso il quadro ancor più caotico. La conseguenza? Malcontento generalizzato dei soggetti di settore e paralisi del mercato.
Nel suo aspetto fisiologico, il mito dell’efficienza e dell’economicità dell’agire amministrativo – alla base delle normative susseguitesi in materia di contrattualistica pubblica – risale al Regio Decreto 18 novembre 1923, n. 2440, “Legge di Contabilità di Stato”, con il quale si voleva garantire il pubblico interesse attraverso la definizione della scelta della migliore offerta.
Soltanto, poi, agli inizi degli anni novanta si è assistito ad un concreto boost legislativo in materia di appalti, apparentemente, sotto spinta delle direttive comunitarie che hanno disegnato la struttura della disciplina che ancora oggi si conosce e si applica: 93/37/CEE, 92/50/CEE, 93/36/CEE, 90/53/CEE e 93/38/CEE.
Per avere, però, una visione complessiva del momento storico bisogna ricordare che nei primi anni novanta, le cronache nazionali sono state contraddistinte dagli scandali di “tangentopoli” e l’inchiesta “mani pulite” che hanno delegittimato una intera classe politica, specialmente nell’attitudine di questa nel gestire la publica pecunia.
In questo contesto di spinte fisiologiche pro-concorrenziali da un lato e pressioni dovute alla patologica situazione politica dall’altro, l’occasione ha dato i natali alla “prima” normativa quadro in materia di lavori pubblici, la Legge 11 febbraio 1994, n. 109, anche detta “legge Merloni”. Il tentativo è stato quello di creare delle fitte briglie al fine di limitare il margine di un’eccessiva discrezionalità della pubblica amministrazione e, così facendo, ridurre la possibilità di sperpero di danaro pubblico ed infiltrazioni mafiose. L’intero sistema, nonostante il malcontento comune, ha retto dodici anni, fin quando, ancora una volta, sotto spinta europea, la legge Merloni è stata sostituita dal Decreto Legislativo 12 aprile 2006, n. 163, nato monco o addirittura morto, per alcuni. Circa cinquantadue le modifiche occorse nell’arco del successivo decennio.
Nell’ambito della c.d. “strategia Europa 2020”, il Consiglio ed il Parlamento europeo hanno adottato le Direttive 23, 24 e 25 del 2014 con l’intento ambizioso di rendere più efficiente l’utilizzo dei fondi pubblici, garantire la dimensione europea del mercato dei contratti tutelando la concorrenza, fare un uso strategico degli appalti pubblici come strumento di coesione economica e sociale, promuovere la lotta alla corruzione. Tali obiettivi sono stati declinati dalle tre direttive attraverso alcune novità come una disciplina sistematica delle concessioni, centralizzazione della committenza, preferenza del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, tutela dei subappaltatori, etc.
Il quadro europeo ha quindi indotto l’allora Parlamento a delegare al Governo la riedizione del codice dei contratti pubblici definitivamente entrato in vigore con Decreto Legislativo 18 aprile 2016, n. 50. Il tentativo – probabilmente non appieno riuscito – del Governo e del Parlamento è stato quello di rispondere positivamente al divieto di gold plating, ossia evitare di introdurre livelli di regolazione superiori a quelli minimi previsti dalle direttive europee. La fretta politica di portare a casa il risultato ha prodotto, invero, una normativa per molti versi lacunosa ed errata nella grammatica e nelle scelte di opportunità: basti pensare che dei 222 articoli complessivi, circa 160 sono stati rimaneggiati dal successivo decreto correttivo, Decreto Legislativo 19 aprile 2017, n. 56. Inoltre, la scarsa chiarezza letterale e le diverse contraddizioni normative hanno prestato il fianco ad una notevole produzione giurisprudenziale, spesso contrastante e, comunque, non risolutiva.
La vita degli operatori economici e delle stazioni appaltanti, quindi, ha continuato a non essere semplice: nella prima metà del 2019, l’allora Governo ha deciso di procedere ad una modifica ulteriore e, forse, altrettanto impattante. Con il Decreto Legge 18 aprile 2019, n. 32 (c.d. “Sblocca Cantieri”), convertito con modificazioni dalla Legge 14 giugno 2019, n. 55, il Governo ha introdotto delle modifiche ordinamentali al codice, prevedendo, però, anche una serie corposa di deroghe temporanee che hanno sospeso parti del codice in maniera del tutto randomica e “sperimentale” con la finalità (leggasi “speranza), appunto, di “sbloccare cantieri” fermi da anni.
La crisi epidemica mondiale dovuta all’emergenza Covid-19 che ha – quasi – immobilizzato l’economica mondiale e, per quanto di nostro interesse, quella italiana, ha richiesto ai due governi susseguitisi negli ultimi due anni di approvare due diverse normative emergenziali volte a ridare vigore al mercato delle commesse pubbliche e, contestualmente, gestire i fondi provenienti dal piano “Next Generation EU”: Decreto Legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito con modificazioni dalla Legge 11 settembre 2020, n. 120 (c.d. “Semplificazioni I”) e Decreto Legge 31 maggio 2021, n. 77, convertito con modificazioni dalla Legge 29 luglio 2021, n. 108 (c.d. “Semplificazioni II”). Ancora una volta, però, le ripetute sospensioni disposte medio tempore e le numerose modifiche puntuali hanno reso ancor più disorganico il quadro normativo di riferimento.
È proprio in questo scenario di complessità normativa ed interpretativa che la scorsa estate, come anticipato, la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha presentato il nuovo disegno di legge che, a valle di un’articolata discussione ed emendazione dei principi ed i criteri direttivi, dovrebbe condurre ad una nuova versione del codice dei contratti pubblici, con lo scopo di razionalizzare, riordinare e semplificare la disciplina. Ancora una volta, il disposto dell’art. 1 si apre con il mito del divieto di gold plating, per poi dipanarsi in ulteriori principi come la semplificazione delle procedure sotto-soglia, la riduzione e la certezza dei tempi delle procedure di gare, la revisione e la semplificazione del sistema di qualificazione generale degli operatori economici, l’adozione di nuovi e più efficienti metodi di risoluzioni alternative delle controversie, ed altro ancora.
In conclusione, potendo rispondere al Mosè, è sicuramente vero che una cosa sono le leggi e un’altra le interpretazioni giurisprudenziali, ma probabilmente sarebbe più che mai opportuno – specie in un ambito così delicato – che il legislatore riprendesse i propri spazi di discrezionalità legislativa e deliberasse un corpo normativo chiaro, lineare e razionale, cercando così di porre un freno a successive fantasiose interpretazioni in sede di contenzioso. Se non già unicamente per la dignità della produzione legislativa, lo si facesse per coloro che quotidianamente di questo tipo di normativa tecnica ne hanno fatto il proprio mestiere.