L’abilitazione alla professione di Ingegnere, un’opportunità sempre meno considerata dai laureati in ingegneria tanto da diventare una prerogativa quasi esclusiva dei laureati del settore civile, nel 2020 riacquista interesse all’improvviso e il numero degli abilitati esplode e raddoppia rispetto all’anno precedente. Il repentino cambio di atteggiamento verso l’Esame di Stato non sembra, tuttavia, l’effetto di una mutata percezione del titolo abilitante, quanto, molto più realisticamente, determinato dall’inaspettata opportunità di poter svolgere l’Esame con una procedura semplificata, introdotta a causa dell’emergenza sanitaria in atto, che ha ridotto le quattro prove “canoniche” ad una sola prova “a distanza”.

I dati elaborati dal Centro Studi del Consiglio Nazionale degli Ingegneri sono eloquenti: dopo una quindicina di anni in cui il numero di abilitati alla professione di Ingegnere e Ingegnere iunior è passato dai quasi 20mila del 2006 agli appena 8.500 del 2019, nell’anno solare 2020 hanno conseguito il titolo abilitante oltre 16mila laureati, circa il 90% in più rispetto all’anno precedente.

E’ indubbio che soprattutto tra i laureati in ingegneria dei settori industriale e dell’informazione, solitamente indifferenti nei confronti degli Esami di Stato, questa situazione eccezionale sia stata percepita come un’ottima occasione da cogliere al volo non tanto per la difficoltà delle prove d’esame (il tasso di successo medio tra gli ingegneri è stato sempre molto alto con valori costantemente superiori all’85%) quanto perché allettati dall’idea di poter conseguire il titolo abilitante in tempi rapidi e, di conseguenza, non dover procrastinare l’ingresso nel mondo del lavoro.

E’ questo un aspetto molto importante nel comprendere le dinamiche che regolano l’approccio all’abilitazione professionale: non è la difficoltà delle prove a tenere lontani i giovani dagli Esami di Stato, quanto l’idea di dover affrontare un nuovo sforzo, impiegando tempo prezioso, al termine di un percorso di studi già di suo complesso e impegnativo. Per un titolo, poi, di cui, la grande maggioranza dei giovani laureati in Ingegneria non ne percepisce l’utilità.

Sarebbe dunque sufficiente semplificare definitivamente o, addirittura, eliminare del tutto l’Esame di abilitazione per far sì che i giovani ritrovino interesse per il titolo professionale e, di conseguenza, per l’Albo?

Premesso che la correlazione “abilitazione-iscrizione all’albo” non è così scontata, dal momento che c’è un numero molto elevato di laureati che, pur abilitati, non si sono iscritti all’albo, non è nemmeno così semplice modificare l’impianto degli Esami di Stato per l’abilitazione professionale, garantendo sul livello delle competenze conseguite.

Un aiuto in tal senso, notizia proprio di questi giorni, potrebbe venire dal nuovo decreto (legge 8 novembre 2021, n. 163) appena pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale (n.276 del 19/11/2021) che istituisce le lauree abilitanti per diverse professioni e che, tra le righe, lascia aperta la strada affinché vengano istituite anche per la professione di Ingegnere.

Affinché ciò avvenga è necessario che venga emanato un regolamento ad hoc che disciplini le nuove abilitazioni e, in base a quanto indicato nel decreto citato, tale regolamento dovrà prevedere “che i titoli universitari conclusivi dei corsi di studio abbiano valore abilitante all'esercizio della professione, previo superamento di un tirocinio pratico-valutativo interno ai corsi”.

In altre parole, l’Esame di Stato viene eliminato e l’abilitazione professionale diviene il risultato di tre elementi: il titolo di laurea, lo svolgimento di un periodo di tirocinio e una prova tecnico-pratica (che, nel novero delle ipotesi, potrebbe essere anche inserita all’interno dell’esame finale del corso di studi).

Se per il tirocinio e la prova tecnico-pratica, la situazione è tutta in divenire e dipenderà esclusivamente dai contenuti del regolamento che verrà, il riferimento al titolo di studio merita qualche considerazione più approfondita.

Alla stregua di quanto già previsto dalle normative emanate per le altre professioni, è assai probabile che anche l’abilitazione professionale degli ingegneri sia strettamente legata alla classe di laurea magistrale del titolo di laurea conseguito.

Un requisito apparentemente indiscutibile, ma andando ad analizzare più nel dettaglio la situazione, si evince che a fronte delle 18 classi di laurea magistrale che al momento consentono l’accesso all’abilitazione professionale di Ingegnere (in realtà sarebbero 20 perché, in base al DPR.328/2001, si aggiungono le lauree in Informatica e in Sicurezza informatica), nell’anno accademico in corso sono stati attivati in Italia ben 482 corsi di laurea magistrale dalle denominazioni più disparate, ma soprattutto con contenuti formativi assai disomogenei tra loro anche in corsi della stessa classe di laurea.

Appare dunque evidente che se si vuole salvaguardare l’equazione “abilitazione = garanzia di competenze professionali”, il riferimento alle classi di laurea è sicuramente necessario, ma certamente non sufficiente a certificare le competenze professionali dei laureati.

Appurata la vasta disomogeneità dell'offerta formativa ingegneristica italiana, non sarebbe allora preferibile che fosse fissata una "soglia" minima di conoscenze a garanzia della professionalità e delle competenze degli ingegneri?

Una possibile soluzione potrebbe essere quella di stabilire, per l'accesso alla professione, un "pacchetto" minimo di crediti da conseguire in determinati settori scientifico-disciplinari prestabiliti e resi obbligatori per tutte le classi di laurea e laurea magistrale, a cui aggiungere una quota di crediti “di indirizzo” assegnata a settori scientifico disciplinari che variano in base al settore dell'albo di appartenenza. In altre parole, si potrebbe stilare (anche con l’eventuale supporto del CNI) un elenco di "insegnamenti" ritenuti imprescindibili per il conseguimento del titolo abilitante, di cui una parte comune a tutti e tre i settori e un'altra collegata al settore prescelto.

Una soluzione alternativa potrebbe essere invece quella di una "certificazione", da parte di un ente riconosciuto, dei corsi di laurea magistrale che rispondono a determinati criteri formativi stabiliti a priori e solo i laureati di questi corsi "certificati" potranno ottenere un titolo che vale contemporaneamente sia come laurea magistrale, che come abilitazione professionale.

In entrambi i casi l’Esame di Stato resterà in essere, ma solo per i laureati “esterni” ai corsi abilitanti.

L’occasione è dunque quanto mai propizia non solo per ridisegnare completamente le procedure di accesso alla professione e sistemare le anomalie dovute ad una norma, quella del Dpr.328/2001, mai aggiornata e pertanto inadeguata alla situazione reale, ma anche perché l’abilitazione professionale venga riconosciuta universalmente come garanzia di qualità e competenze e non soltanto come un requisito da possedere perché obbligati da una norma.

I dati sugli Esami di Stato del 2020 ci dimostrano tuttavia che, pur semplificando le procedure di accesso all’Albo professionale, questo continua a non riscuotere un grande successo tra gli ingegneri e resta molto alto il numero di laureati che, non ravvisandone l’utilità, non si iscrive, sebbene, spesso, i “riluttanti” siano anche in possesso dei titoli utili per farlo. Un fenomeno questo su cui ci si dovrebbe soffermare con particolare attenzione per individuarne le cause, poiché solo comprendendo e approfondendo le motivazioni che allontanano i laureati in ingegneria dall’Albo, si potrà definire un piano di azione per fare in modo che l’Ordine e l’iscrizione all’Albo recuperino un po’ di appeal tra i giovani, ma questo è un altro discorso.